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Io non ho paura

di Martin Gøttske & Erica De Stale

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Nella maggior parte dei casi i funzionari corrotti rivestono un ruolo centrale. «Sono peggio dei giapponesi», dice Wang Lizhu, che ancora attende di essere risarcito, dopo che i burocrati hanno venduto in maniera illecita la sua terra a un'impresa, trattenendo il relativo profitto. I giapponesi, responsabili della brutale invasione del Paese negli anni Trenta e Quaranta, sembrano meno pericolosi degli stessi cinesi: «Almeno loro non ci toglievano i mezzi di sussistenza, mentre ora il Governo ci ha privato di tutto».

Zhou Zhangxiu concorda. Mostra tre dita e spiega che rappresentano il partito comunista, la polizia e il crimine organizzato: «Sono un'unica cosa».
La maggior parte degli appellanti è di umile estrazione sociale. Fossero stati ricchi probabilmente non si troverebbero in questa condizione, perché avrebbero potuto permettersi di comprare l'amicizia dei funzionari che hanno la possibilità di distruggere le loro vite.

Il motivo per cui l'attuale sistema giudiziario cinese ha fallito nel tutelare queste persone, secondo Teng Biao, uno dei principali avvocati impegnati nella difesa dei diritti civili in Cina, è ovvio: mancano i tribunali indipendenti. «Troppo spesso - dice - i giudici esprimono gli interessi di chi sta al potere e non quelli della popolazione: quando i funzionari commettono soprusi ai danni del cittadino, i tribunali proteggono i burocrati. In assenza della separazione fra i poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario - non si può affermare che la Cina sia un Paese in cui vige il principio di legalità. Allo stadio attuale, il potere politico prevale su quello giudiziario».

Sono pochi gli appellanti che hanno riscontrato progressi nel proprio caso, a dispetto dei numerosi viaggi a Pechino. Ciononostante la maggior parte dei petitioners non demorde. «Che altro possiamo fare?», si chiede Yang Yongxiu, privo di qualsiasi alternativa che non sia continuare a bussare alle porte degli "uffici di petizione" della capitale.

Non sono pochi a pensarla così. Ogni anno in Cina fra i 12 e i 14 milioni di cittadini depositano i propri reclami. Pochi riescono a ottenere l'interessamento al proprio caso del Governo centrale, che comunque si limita semplicemente a esortare i funzionari locali - gli stessi che sono accusati di aver abusato del potere - a effettuare un riesame.

Diversi studi mostrano che al massimo il due per cento dei reclami si risolve con un risultato favorevole all'appellante. Ciò malgrado il Governo stesso abbia in passato riconosciuto che fino all'ottanta per cento dei casi le rivendicazioni sono legittime. Nel tentativo di limitare i reclami depositati a Pechino, il Governo ha annunciato che il giudizio sul rendimento dei funzionari locali sarà inversamente proporzionale al numero di rimostranze delle singole aree geografiche ricevute nella capitale.

Secondo Yu Jianrong, che ha diretto il più recente studio dell'Accademia cinese di scienze sociali sul sistema delle petizioni, anziché motivare i funzionari a lavorare meglio questo provvedimento ha spinto le autorità locali a inviare nella capitale un crescente numero di sgherri. Con un compito preciso: intercettare gli appellanti e impedire loro di depositare reclami che getterebbero ombre sull'operato dei capi politici locali. Le organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno denunciato attacchi, minacce e intimidazioni nei confronti dei petitioners.

Ying Jinxian racconta di essere stata illegittimamente rinchiusa per due settimane nello scantinato della sede della provincia dello Zhejiang, a Pechino. Affinché non presentasse nuovi reclami alle autorità centrali è stata picchiata, privata di cibo e della possibilità di dormire. Stando all'indagine condotta dall'Accademia cinese di scienze sociali, il 64 per cento degli appellanti è stato illegittimamente detenuto da scagnozzi inviati dalla provincia d'origine; oltre la metà afferma di aver subito maltrattamenti; ma fino al 60 per cento degli intervistati sostiene di essere preparato a una «vita di battaglie e morte» contro i funzionari corrotti.

Nel frattempo un gruppo di appellanti nella zona di Pechino continua a sperare che la classe dirigente cinese alla fine li aiuti. Li Zhongying, trasferitasi nella capitale dopo che un capo locale del partito l'ha costretta ad abortire, intona, con voce squillante, una canzone che parla di «funzionari marci che ci ingannano». Gli altri appellanti raccolti intorno a lei iniziano a piangere. È una storia che conoscono tutti fin troppo bene.

«Presidente Hu, Primo Ministro Wen, dove siete?», canta la signora Li. «Alla fine i problemi saranno risolti, succederà un giorno». Non oggi però, quando il canto della signora Li viene interrotto dalle sirene della polizia e da agenti il cui lavoro è impedire che queste storie vengano raccontate a un giornalista. Non c'è nessun tentativo di fuga all'arrivo delle forze dell'ordine. «Non abbiamo più nulla da perdere», sospira Zhou Zhangxiu.

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